FRAMMENTI DI UN DISCORSO DEI LUOGHI
COMUNI
LETTERA [ I ] – IMMIGRATI
Da quasi 30 anni una delle parole più diffuse, nei media e nei discorsi privati, è Immigrati. Insieme a tutte quelle parole che vi ruotano intorno: immigrazione, emigrazione, emigrati, migranti.
La cosa è
naturale perchè il numero degli immigrati in Italia e in Europa è cresciuto in
modo notevole, facendosi parola comune. Nulla di cui stupirsi. Oltre a
rientrare nei discorsi comuni è diventata però anche un luogo comune,
insinuatosi tra le pieghe di altri luoghi comuni. Nessuna parola entra nel
nostro vocabolario senza portarsi dietro il peso del senso che vogliamo dargli.
E’ di questo senso, che trasforma una parola comune in luogo comune, che
parlerò in questo frammento.
La prima cosa che
salta agli occhi per chi ha studiato qualche anno fa l’emigrazione italiana è
che oggi si preferisce usare il termine “migrazione”, “migranti” e tutti
ritengono più corretto sostituire il vecchio termine con uno più moderno.
Gatta ci cova.
A dimostrazione
che le parole non sono neutre oppure semplice forma di sostanze. Il termine
immigrato indica che una persona si è trasferita da un paese al nostro paese,
mentre il termine emigrante o emigrato indica la persona che lascia il nostro
paese. Gli italiani in America sono emigrati per noi, mentre sono immigrati per
gli americani: ex, in latino “da”; in, in latino “verso”.
Emigrante o
emigrato differiscono solo per il processo e per il fatto compiuto, essendo il
primo participio presente e il secondo participio passato. Tutto qui.
Togliere i due
prefissi, da e verso, genera un’operazione tutt’altro che innocente e per nulla
priva di significato. Se io tolgo ex
e in e lascio solo il migrare, allora
tolgo dal discorso-concetto-idea l’esistenza di una Patria e indico il semplice
spostamento, per cui non ci sarebbe differenza tra me che mi sono spostato da
Arezzo a Firenze, o dai numerosi meridionali che si sono spostati al Nord, e le
persone che provengono da altre nazioni e addirittura da altri continenti.
Conseguenza è che con gli stessi modi e diritti con cui gli italiani vengono
accolti nei loro spostamenti all’interno dell’Italia così devono essere accolti
i siriani, gli afgani, gli africani che desiderano venire da noi.
Negare la Patria,
la Nazione significa negare la Storia. Significa negare la storia di chi vive
da generazioni nella nostra penisola e allo stesso tempo di chi ha vissuto da
sempre in altri luoghi: ogni persona, ogni comunità, ogni istituzione ha una
storia che non può essere cancellata improvvisamente dal pio desiderio di
uguaglianza.
Questo desiderio
(di uguaglianza) o vive nella storia e fa i conti con i comportamenti e gli
eventi storicamente determinati oppure crea solo dei mostri. Come è successo
con la Repubblica Giacobina e con i diversi esperimenti del Comunismo.
In nome
dell’uguaglianza, tutti uguali tutti cittadini, Robespierre ha dato vita al
Terrore. In nome dell’uguaglianza Lenin e Stalin hanno fatto morire più di 10 milioni di abitanti dell’URSS. In
nome dell’uguaglianza Mao Tse-tung in Cina ha ridotto il paese alla fame,
mandando nelle campagne gli intellettuali. In nome dell’uguaglianza Pol Pot in
Cambogia ha ucciso un milione di persone che portavano gli occhiali (segno
distintivo del saper leggere, sinonimo di pericolosi intellettuali).
L’uguaglianza in
astratto non esiste e vive nel concreto in forme concrete: sotto Robespierre
erano uguali solo coloro che erano d’accordo con lui; sotto Lenin, Stalin, Mao
e Pol Pot gli uguali erano solo i comunisti.
L’unica
uguaglianza che non produce mostri è quella che fa i conti con la storia e con
le sue storture, insufficienze, difficoltà. In questo senso la Atene classica
rappresentò un punto di riferimento, pur sapendo che c’erano degli esclusi: le
donne, i meteci (stranieri) e gli schiavi. Dal Medio Evo l’Europa ha iniziato
un percorso (lento, storto, imperfetto) grazie al quale il processo di
uguaglianza si è concretizzato sempre di più, coinvolgendo sempre più persone,
gruppi, interessi. Sicuramente la Storia ci obbliga ad affrontare nuove realtà
e nuove sfide e queste vengono e verranno affrontate: esse troveranno una
soluzione positiva per tutti SOLO SE si vorrà rimanere con i piedi per terra,
evitando slanci apparentemente “belli e buoni” ma che portano solo a
incrementare odi e violenze, come il passato ha sempre dimostrato. E SOLO SE
non rinunceremo ai nostri valori e alla nostra Storia, non solo perchè sono
nostri, ma soprattutto perchè mostrano di aver funzionato meglio.
La riduzione
dell’immigrante a migrante non è un’operazione ingenua, ma un intervento
malizioso e subdolo. Essa ci paragona agli stormi di uccelli che migrano spesso
a seconda delle stagioni, ma gli uccelli non hanno Nazione nè Istituzioni,
sebbene abbiano una storia.
Nella Storia le
migrazioni di popoli hanno in genere coinciso con i grandi spostamenti di
nomadi spesso prima del neolitico, quando gli uomini hanno scelto di essere
stanziali. In seguito le grandi migrazioni hanno conformato, distruggendo o
sottomettendo i popoli che risiedevano e che per varie forme di debolezza erano
incapaci di contrapporsi. E’ la storia dei Turchi che dalla Mongolia attraverso
Anatolia (oggi Turchia), Pannonia (oggi Ungheria) sono arrivati in Finlandia.
E’ la storia degli Arabi che hanno islamizzato Africa e Asia. E’ la storia dei
Barbari che hanno portato alla fine dell’Impero Romano.
Non sono popoli
cattivi, nessun popolo è cattivo, ma ognuno risponde ad alcune regole che forse
non sono scientifiche ma che si ripetono regolarmente.
A me qui non
interessa fare dei paragoni che sarebbero inattuali proprio per quelle
caratteristiche storiche poco sopra richiamate. Mi preme evideziare il
carattere ipocrita e contraddittorio, alla fine nefasto, del politicamente
corretto che fa un’operazione sporca, trasformando la Storia in Morale. Tutti
coloro che lo hanno fatto (ricordate la Festa della Virtù giacobina?) hanno
prodotto solo danni, sempre gravissimi. Non hanno avviato a soluzione i
problemi, ma li hanno creati o aggravati. Oggi in Italia sempre più persone
sono infastidite (si fa per dire) se non proprio incattivite nei confronti
degli immigrati: eppure molti di loro erano a favore di un ingresso per motivi
umanitari e morali. Sicuramente sbagliano, ma sono persone che esistono, in
carne ed ossa, e rappresentano una parte consistente dell’Italia. Dare un
giudizio morale non serve a nulla; ciò che serve è fare i conti con la storia e
con ciò che sta succedendo.
In passato ho
sentito dire che gli italiani si dimenticano di essere un popolo di emigranti,
sempre con il ditino puntato in alto, evitando però di dire che chi andava
negli Stati Uniti doveva rispettare moltissime regole, anche sanitarie. Non c’è
dubbio che favorire gli ingressi, come è stato fatto finora, spinga altre
persone a cercare di entrare e così il flusso cresce.
Ma non sono un
politico.
E qui mi
interessa rilevare che certi fenomeni non si gestiscono nè con le buone
intenzioni nè facendo finta di nulla: ci sono persone che hanno accolto dei
migranti in casa loro, ma questa scelta è una scelta individuale e non può
essere la soluzione di un problema. L’Italia è famosa nel mondo per commuoversi
per il dolore, perchè è stata abituata a preferire la commozione alla
soluzione: prima la Chiesa e poi il Partito Comunista ci hanno spiegato
(indottrinato) che l’uomo deve essere buono. E basterebbe essere buoni, aiutare
il prossimo, perdonare, aiutare i poveri, per ottenere il Paradiso in terra: la
prima (la Chiesa) lo ha proposto come scelta individuale, il secondo (il PCI)
come impegno collettivo. Chi si allontana da quelle due dottrine vive nel senso
di colpa.
Purtroppo ogni
volta dobbiamo resettare, tornare indietro perchè quei presupposti facevano a
pugni con la realtà che invece ci obbliga a guardare in faccia l’essere umano.
Se oggi gli uomini sono meno belve e stanno
meglio di secoli e millenni fa non è per merito delle parabole e delle
belle parole diffuse a favore di poveri e vinti, ma perchè sono riusciti a
costruire istituzioni che accanto alla libertà garantiscono protezione. Ciò è
successo a un prezzo altissimo, ma è successo. Questa è la storia dell’umanità.
Trovo ipocrita il
senso di colpa per la nostra ricchezza e senza alcuna motivazione. Innanzitutto
l’idea che i Paesi più sviluppati si siano arricchiti a spese degli altri Paesi
non corrisponde alla realtà (come sempre maggiori studi dimostrano), ma per di
più pensare a una specie di risarcimento è quanto di più folle si possa ideare.
Due i motivi.
1)E’ appurato che
il dominio spagnolo in Italia ne abbia compromesso lo sviluppo: dovremmo
chiedere alla Spagna i danni? E l’Albania e la Grecia dovrebbero chiedere un
“giusto” risarcimento a Italia e Germania? E i Paesi dell’Est Europa o
dell’ex-URSS dovrebbero chiedere a Putin miliardi? E i berberi del Nord Africa,
distrutti e sottomessi dagli Arabi, a chi si dovrebbero rivolgere? Lo stesso
gli Zulu del Sud Africa, sottomessi ed emarginati dai Bantu, a quale paese
africano dovrebbero presentare il conto? E le diverse etnie etiopi sottomesse
dal Negus prima dell’intervento italiano nel 1936 avrebbero diritto a un
risarcimento? E se si perora la causa dei “nativi” (sic!) americani che
sarebbero stati ingannati dagli astuti europei, perchè non fare lo stesso con
l’Alaska venduta dallo Zar agli Stati Uniti?
2)La
globalizzazione ha favorito lo sviluppo di Paesi un tempo considerati del Terzo
Mondo e poi del Sud del Mondo. I Paesi che sono cresciuti in Asia (dall’India
alle Tigri del Sud-Est alla Cina), in Africa (Marocco, Ruanda Botswana) e quasi
tutti i paesi del Sud America con eccezione del paracomunista Venezuela ci sono
riusciti perchè hanno saputo cogliere le nuove opportunità e ciò che la storia
offriva loro. Il dominio inglese in India ha lasciato il Paese con una vasta
conoscenza della lingua dei commerci e con un sistema ferroviario tra i più
ampi. Non rinunciano a contenziosi come l’India con il Pakistan e la Cina, la
Cina con il Giappone, il Marocco con la Spagna ecc. Ma si tratta di aspetti
locali non di recriminazioni storiche.
Un famoso verso
di Saffo di Lesbo, poetessa greca, si addice anche ai Paesi e alle Comunità,
non solo agli individui.
Esso recita: “Non
si addice il lamento ai poeti”.
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