FRAMMENTI DI UN DISCORSO DEI LUOGHI
COMUNI
LETTERA [ G ] -
GIOVANE – GIOVENTU’
“L’età è solo un colore”, con queste parole salutavo il mio più caro amico che stava partendo
per l’Australia. Avevo poco più di 40 anni e lui poco più di 20. Ero commosso
perchè non lo avrei rivisto per tre mesi e così, scherzando, gli proposi un
giorno e un’ora in cui salutarci, io dal porto di Valparaìso e lui da Sydney. E
così fu.
Quella frase voleva dire tante cose per
me e molte altre ne avrebbe dette nei 20 anni successivi. Essenzialmente
significava che non c’era differenza di età nella costruzione di una relazione
e che la tanto amata “corrispondenza d’amorosi sensi” garantiva l’incontro al
di là dei numeri. Molti anni dopo la fisica quantistica mi spiegava che forse
si trattava di entanglement.
Quella frase, nata in un contesto molto
specifico e contingente, riteneva che (1) si dovesse andare oltre la
separazione che da sempre si era fatta nel tracciare i diversi capitoli della
vita umana: infanzia, adolescenza, vita adulta e vecchiaia.
Allo stesso tempo non voleva neppure
essere (2) la soluzione liquida ai cambiamenti imperiosi dell’esistenza umana
degli ultimi cinquanta anni: il nuovo benessere sembrava infatti la possibilità
di rendere eterna la giovinezza.
Come sempre succede, ma soprattutto nei
passaggi a stadi di maggiore complessità, entrambi gli aspetti risultano veri e
allo stesso tempo possono indurre in errore.
Non c’è dubbio che la vita possa essere
scandita da fasi che ci rendono uomini, animali ben diversi da tutte le altre
specie: il lungo periodo dell’infanzia-adolescenza non è rintracciabile presso
nessun altro animale. Esso rimane, al di là delle forme e dei tempi, come
rimane la lunghezza dell’età adulta e della vecchiaia. Ciò che muta sono le
forme che comportano, dal nostro interno, enormi trasformazioni, ma
nell’insieme siamo sempre gli stessi dell’indovinello di Edipo (l’enigma della
Sfinge). Questa visione aveva portato i nostri antenati a riflettere in modo
profondo sul senso che ad esempio doveva avere la vecchiaia: Cicerone aveva
scritto addirittura un famoso saggio intitolato De senectute (Sulla vecchiaia).
L’educazione ai valori della comunità, il protagonismo, la lenta consapevolezza
del decadimento. Tutto era chiaro. E tutto rimane vero ancora oggi. E’ però
solo una parte di verità.
Non c’è dubbio che in questo quadro di
continuità, la componente giovanile abbia preso il sopravvento. Innanzitutto
perchè ai giovani, spesso ancora adolescenti, è stato permesso di parlare come
se la loro esperienza e cultura avesse avuto il tempo di solidificarsi e farsi
concetto. C’è poi il fatto che il benessere e le conquiste della medicina hanno
fatto sì che oggi si possano fare attività che in passato non superavano i
40-50 anni.
Non è in discussione il tenersi in forma,
camminate, nuotate, tennis, jogging e tanto altro invece della tombola, del
rosario, del bingo e del ramino di un tempo; non è in discussione l’uso del blu
e di fantasie non colorate nei rapporti sessuali.
In passato il fulcro della comunità era
l’anziano: il senato deriva questo nome da senex-senis, termine latino per
vecchio; lo stesso in greco gherusia deriva da gheron, vecchio, da cui
geriatria, gerarchia e altro. Il rispetto per l’anziano era condizione
imprescindibile della vita pacifica di una comunità: rispetto che il bilancio
di una vita richiedeva e che si prolungava dopo la morte con il culto dei
defunti (i Penati a Roma).
Con la modernità le cose sono cambiate.
Il mondo era visto come aperto all’infinito verso il futuro, non più un cerchio
ma una retta e questo significa che gli anziani appartengono al passato, mentre
i giovani hanno le carte, unici, per far progredire la società. Non c’è dubbio
che anche questa affermazione sia vera e possa fare a meno del ruolo un tempo
attribuito ai vecchi. Ma anche i giovani diventeranno vecchi e dunque
l’argomento è molto più complesso di quanto lo si voglia vedere, se teniamo
separati i due aspetti: il tutto -in un sistema complesso- non è mai la somma
delle parti.
Negli ultimi decenni si è passati
dall’esigenza che i giovani sentivano di avere dei riconoscimenti, esigenza che
nasceva dai grandi cambiamenti avvenuti dopo la Seconda Guerra Mondiale, a
un’assolutizzazione del concetto di gioventù. I genitori lasciano ai figli
quello che era ed è il loro compito, i professori dichiarano di voler imparare
dai loro studenti, “uno vale uno” per cui ciò che pensa un comune abitante ha
lo stesso valore di chi ha dedicato la propria vita alla medicina, alla
biologia, alla poesia…Ma soprattutto si è fatta strada, nei veicoli di
comunicazione, che il vero essere umano, colui che merita l’appellativo di uomo
è il giovane; attraverso il cinema, la musica, la letteratura sembra essere
tornati all’era dell’Iliade con Ettore e Achile giovani protagonisti di
un’epopea. Solo che oggi sia Ettore sia Achille sarebbero compatiti, perchè si
sono fatti uccidere da giovani. Così non si fa! La vita è sacra! Dobbiamo
dichiararci pacifisti! Ettore e Achille non sono mai esistiti, ma hanno
incarnato un ideale, un modello di uomo: il loro essere giovani era solo un
dato quantitativo, non di valore. Oggi invece il giovane è trasgressivo, sesso
droga e rockandroll, ma anche potente, palestra jogging e Bungee Jumping.
Giustamente: meglio morire lanciandosi col paracadute che in guerra.
La fine della scansione in tappe della
vita di una persona e il prolungamento indietro e in avanti della giovinezza
fanno sì che cinquantenni, sessantenni, settantenni cerchino di imitare
nell’aspetto fisico, nei comportamenti, nella visione del mondo i loro figli e
nipoti. Il tutto ricorda la vecchia signora-pappagallo di Pirandello, figura
umoristica per eccellenza.
Due frasi si sono imposte nel corso degli
ultimi anni dando dignità a questa nuova corrente e visione del mondo, dandole
consistenza e significato, cercando di proporre un’alternativa al valore da
sempre riconosciuto alla tradizione. Si tratta di una specie di surrogato della
celebre e ben più famosa querelle romantica sul dissidio tra gli antichi e i
moderni: solo che allora si faceva riferimento, in entrambi i casi, a vere e
proprie autorità. Segno dei tempi: gli antichi sono diventati i matusa, mentre
i moderni sono i giovani di qualsiasi
età. Non c’è dubbio che per millenni la gioventù interessasse solo per la
formazione tanto che -occorre ricordarlo ancora- il termine adolescente (p. presente)
indica qualcosa che deve formarsi e diventare adulto (p. passato). Quei
millenni sono stati cancellati non nel fatidico ’68 quando anche i giovani di
categoria hanno preteso di essere ascoltati, ma nei decenni successivi, quando
la gioventù è diventata la categoria dello spirito cui tutti fanno riferimento.
Certo nessuno si dimentica degli anziani, ma vengono visti con compassione,
oggetto di cure e attenzioni, come si fa con dei malati: da questo punto di
vista una persona con handicap gode di maggiore stima di una persona anziana.
Torniamo alle due frasi.
Carpe diem è la
prima. Il motto oraziano vuol dire, letteralmente, prendi il giorno, e viene
interpretato giustamente come “cogli l’attimo”, “vivi il presente”. Il successo
di questo motto è il frutto di questa prorompente gioventù e allo stesso tempo
un motore per svilupparla ancor di più. Canzoni, film, negozi, B&B, giornalini
scolastici, di tutto di più: non si può essere giovani se non si coglie
l’attimo. Carpe diem diventa il nuovo valore cui riferirsi.
Non starò qui a smenarla più di tanto, ma
la frase non ha un gran significato, perchè dimentica che l’attimo di oggi è
frutto degli attimi di ieri e prepara gli attimi di domani. Avrebbe senso se
invece di Carpe Diem si fosse detto “Assumiti la responsabilità delle scelte
che fai attimo per attimo”, ma questo obbligherebbe a fare i conti con gli
attimi precedenti e futuri. Non voglio convincere nessuno, ma la frase, privata
del contesto, storico e umano, dice tutto e il contrario di tutto. Il
Neonazista che prende a botte un non ariano “coglie l’attimo”: il punto è che
si crede di valorizzare la vita dimenticandosi che per definizione la vita
inizia con la nascita e finisce con la morte, insomma una cifra ben più grande
dell’attimo.
L’età è quella che ci si sente è la seconda frase. Questa ha conquistato milioni di persone perchè
sembra respingere l’ammuffita divisione tra età e sembra spostare su un piano
più nobile il decorrere del tempo. E’ un inganno e l’inganno si manifesta
chiaramente con il confronto con la frase da me creata: “L’età è solo un
colore”.
“L’età è solo un colore” rimescola le
carte, non ha valori superiori, non stabilisce gerarchie, non fissa traguardi
nè comportamenti: l’unico aspetto che può garantire questa affermazione è il
libero scambio tra individui, basato sulla riflessione che ognuno fa della
propria esperienza. Il suo segno riguarda la componente spirituale.
Diversamente “L’età è quella che ci si
sente” si mostra profonda, ma è solo apparenza. Essa infatti esclude ovviamente
l’infante e il vecchio, perchè nessuno in questa categoria vorrà sentirsi
bambino o vecchio. In ogni caso questa frase ripropone una gerarchia e
sottintende che la gioventù è indubbiamente l’età migliore. Il suo segno riguarda la componente
materiale.
Da sempre è stato fatto notare (chi non
ricorda Leopardi dell’Operetta Morale “Dialogo tra la Natura e un islandese”?)
che la vecchiaia non è un bel periodo, perchè debolezza, malattie, fragilità ne
sono la caratteristica. E non c’è dubbio che “tenersi in forma” sia un modo per
approfittare di tutte quelle conquiste che hanno reso il nostro mondo molto più
piacevole: d’altra parte dire che “è meglio essere sani che malati” o “è meglio
essere giovani che vecchi” è solo una ovvietà, non certo un’acquisizione filosofica.
Ciò che stupisce e che merita queste
poche righe su un blog sui luoghi comuni è la trasformazione di qualcosa di
importante come la giovinezza in uno slogan vuoto e universale di cui ci si
appropria a tutte le età per cercare di farsi apprezzare. Ma non riguarda solo
l’apparire perchè in fondo tutti ci tengono a mostrarsi al meglio: il nodo
riguarda l’individuo che entra in questa nuova religione perchè è l’unico modo
che gli permette di apprezzarsi. Apprezzare se stesso.
Quel bilancio di una vita che in un
ventenne non è richiesto, che in un trentenne comincia a farsi strada, che in
un quarantenne diventa una necessità, ebbene in persone che superano queste
tappe è l’unico elemento che possa ancora dare loro un senso positivo alla
propria esistenza. Esistenza che, lo si voglia o no, si avvicina sempre più al
traguardo finale.
Non è questione di ottimismo o di
pessimismo, ma di qualità dell’essere. Una realtà più complessa esige
atteggiamenti più intensi. Purtroppo non si vedono; e il vuoto che si impone è
cosa grande.
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